Alle mense popolari aperte in alcuni quartieri le file sono lunghissime. Tanti che aspettano il pasto sono molto ben vestiti. Ad Atene perdono il posto tutti, non solo i più deboli. Moltissimi negozi sono chiusi, il piccolo commercio è massacrato. Con il lavoro, molti perdono anche la casa. I balconi di Atene sono tutto un cartello: vendesi, affittasi, vendesi. E si cominciano ad aprire dormitori di fortuna.
«Non abbiamo queste pratiche nella nostra tradizione» ci dicono i nostri amici greci «Alcuni a sinistra credono non sia nostro compito fare assistenza. E spesso non sappiamo neppure come farla. Ma non possiamo rispondere solo con le manifestazioni alle necessità di una popolazione sempre più colpita. Veniamo da anni di individualismo e consumismo, ricreare comunità solidali è un’esigenza concreta ora, ne va persino della sopravvivenza di ciascuno e di tutti».
Nascono in diverse parti del paese le farmacie popolari. Nel nord un ospedale fallito è stato occupato dai lavoratori e prosegue il servizio in autogestione. Gli insegnanti, con lo stipendio falcidiato, danno ai bambini ripetizioni gratis.
Nelle fabbriche occupate, compresa quella che abbiamo visitato alle porte di Atene in occupazione da centotrenta giorni, tutti i giorni arrivano pacchi di viveri, buste di pasta e pelati, qualche soldo. I produttori di patate hanno deciso di abbassare i prezzi, e di saltare la grande distribuzione, per provare a salvare insieme se stessi e i consumatori.
È un pugno nello stomaco, questa due giorni ad Atene con la delegazione europea organizzata in tre giorni da Attac Francia. Leggere è una cosa, vedere è un'altra. Ai greci incontrarci fa piacere. Si commuovono con il nostro manifesto di solidarietà. Un deputato lo ha mostrato in Parlamento. Ma ce lo dicono senza peli sulla lingua: «ci siamo sentiti soli in questi ultimi due anni».
E poi aggiungono, tutti senza eccezione alcuna, di non volere la carità, di aver bisogno piuttosto di un’agenda comune perché da soli non si salva nessuno. «Hanno fatto di noi un laboratorio, per salvarsi dalla crisi uccidendo il modello sociale europeo, ammazzando il sindacato e distruggendo i diritti dei lavoratori. Per far avere al mercato le mani completamente libere. Vi fanno vedere noi greci come il cattivo esempio da non imitare, ma è un modo per dividerci e farci a pezzi meglio».
Dicono tutti le stesse cose, anche se hanno storie e tradizioni diverse, quelli che incontriamo: il sindacato, i giornalisti, i giovani indignati, gli attivisti sociali, i militanti dei partiti della sinistra europea. «Noi avevamo in più la corruzione, tremenda e pervasiva, ma il nostro debito non imponeva tutto questo. Tra l'altro, è già certo che il debito greco aumenterà perché hanno distrutto la società e l'economia. L'ultimo pacchetto di aiuti che gentilmente ci hanno concesso, la Grecia neppure lo vedrà.
Rimane nella Deutsche Bank e serve a pagare la Deutsche Bank».
Ci dicono che nella cittadinanza la percezione è cambiata. All'inizio molti erano terrorizzati, hanno creduto di dover ingoiare i sacrifici per evitare il peggio, ma ora sempre più persone hanno capito che la Troika e il governo greco non stanno cercando di salvare i greci, ma le banche e i mercati.
C'è molta più consapevolezza e indignazione, anche se manca un progetto credibile di alternativa che dia respiro lungo alle resistenze che si vanno sviluppando.
La discussione su rimanere o uscire nella eurozona non appassiona nessuno di quelli che incontriamo.
Ci dicono che sì, tutti ne discutono, ma che ci sono proposte più significative per cui lavorare: l'audit popolare sul debito, la individuazione delle quote di debito illegittime da ripudiare, il rallentamento dei pagamenti sembrano essere argomento di dibattito ben più consistente.
Intanto i sondaggi parlano chiaro.
All'incontro con la segreteria nazionale del sindacato - ci incontrano in cinque, rappresentanti di tutte le tendenze politiche, in Grecia il sindacato è uno e tiene dentro tutti - al segretario del Pasok i colleghi fanno una battuta: «alle elezioni scorse lui ha votato per un grande partito, alle prossime ha deciso di votare per uno piccolo».
Che è sempre il Partito Socialista, passato dal 44% del 2009 all' 8% dei sondaggi di oggi.
Ma le elezioni, chissà se e quando si faranno. Già, perché quello che sta succedendo in Grecia è sopratutto un radicale cambio della struttura dello stato. «Il problema non è solo la riduzione dei salari, in molti casi dimezzati. Hanno distrutto tutto quello che avevano conquistato, tutto quello che fa democrazia: le elezioni, la sovranità, il contratto collettivo, le tutele dei lavoratori, lo stato sociale».
I lavoratori sono ormai alla mercè degli imprenditori che possono fare quello che vogliono. Possono chiudere una fabbrica e licenziare tutti solo dichiarando che i profitti non sono più abbastanza, anche se hanno altri stabilimenti o altre proprietà redditizie.
«Stiamo andando verso un'epoca di barbarie» ci dicono tutti. «E non pensate che questo riguardi solo noi. È un problema comune. La vostra solidarietà è un bene, ma se è verso i poveri greci che soffrono non ci interessa. Noi stiamo lottando per la libertà e la democrazia. Questa è la lotta da fare insieme».
Da fare insieme. Dieci anni fa, tutti insieme quelli che siamo andati in Grecia, ci inventammo il Forum Sociale Europeo di Firenze, il più grande e inclusivo spazio pubblico mai realizzato nel nostro continente. Oggi quello spazio non c'è più. Congelato, in teoria. Dissolto, nei fatti. Ma senza rimpianti inutili e antistorici, dopo alcuni anni comincia a essere chiaro a molti che non si può rimanere chiusi nei propri confini nazionali o territoriali, laddove la crisi ci costringe a difenderci e dove i laboratori di alternativa si provano a costruire. E che in fretta bisogna creare lo spazio delle convergenze, per darsi forza.
Perché una Europa c'è. È potente, e detta legge. Fa carta straccia delle nostre Costituzioni, della nostra sovranità - e non in nome di una legalità superiore fondata sulla democrazia e sui diritti come speravamo. È una Europa governata dalla finanza, dalle banche, dai tecnocrati, che applica ai suoi cittadini le stesse ricette del vangelo liberista che trent’anni fa stroncarono l'America Latina.
Questa è Europa, oggi. Una Europa dove i compagni tedeschi ad Atene cominciano i loro interventi dicendo sempre che «c'è anche un’altra Germania», sapendo bene che in tutti e due i paesi rinasce l'intolleranza degli uni verso gli altri. Una Europa che non si vergogna a mettere letteralmente per strada undici milioni di suoi cittadini, in un paese dove affondano le nostre radici, il nostro pensiero e la storia.
Ad Atene ho avuto la stessa angoscia dei primi viaggi nella Yugoslavia in guerra.
Perché le guerre si fanno anche senza cecchini e cannoni, e quelle fratricide sono le peggiori. Sapevamo, in quegli anni, che difendere loro era difendere noi. Oggi è lo stesso.
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Articolo di www.arci.it